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Area di confine nasce nel 2012 come progetto espositivo all'interno dello spazio fisico degli spazi di via dei Pilastri, precedente sede dello studio a Firenze, 20mq ai limiti dello spazio di lavoro destinati ai rapporti con la città, creato per ospitare a rotazione artisti, fotografi, designer e performer che avessero un progetto da raccontare sulla visione della realtà contemporanea nello spazio temporale di 15 giorni con la curatela di Nora Segreto.

Oggi i nuovi spazi dello studio non hanno la configurazione necessaria alla tipologia di progetto ma questo vive ancora e si allarga a spazi esterni in cui gli eventi sono ospitati; showroom, case private, giardini di associazioni e privati hanno ospitato gli eventi, si veda il progetto Backyard che unisce musica e letture ad arti performative e visive.

GALLERY / EVENTI

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Secondo Vitruvio l’architettura è imitazione della natura e un edificio deve inserirsi armoniosamente nell’ambiente naturale. Nel libro III del De Architectura, Vitruvio parla degli edifici sacri e sostiene che un’opera architettonica perfetta, in particolare un tempio, debba rispettare le proporzioni e l’armonia che esistono naturalmente fra le diverse parti del corpo umano.

Le fotografie di Alessandro Colombini, realizzate con un’unica fonte di luce, ritraggono corpi femminili nudi per contrasti evidenti, ma non violenti. Infatti, luci ed ombre accarezzano dolcemente i corpi nudi. L’obiettivo non scava né scolpisce, i corpi non smettono di essere viventi e non diventano oggetti dalle forme perfette. Non è una rappresentazione della donna-oggetto e non sono scatti che mostrano la perfezione del corpo di una dea. Il corpo di una donna non è una divinità, ma è un tempio, un’architettura dell’anima, un paesaggio umano, vivo e animato.

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Quando pensiamo al souvenir ci vengono in mente tutti quegli oggetti che possiamo acquistare, come ricordo, nei luoghi che abbiamo visitato. In genere si tratta di oggetti di scarso valore, prodotti in massa e per la massa, senza alcun carattere di unicità, oggetti-simbolo universali di vari luoghi nel mondo. Ma dietro ad un oggetto, per quanto simbolico, c’è un intero viaggio; c’è un’esperienza vissuta da una sola persona, questa sì unica, diversa da tutti, con una propria sensibilità, con idee solo sue.

Gli “oggetti” di Fritzi Metzger si collocano esattamente a metà strada fra il cimelio-simbolo di un luogo e l’esperienza personale di quel luogo. Metzger, infatti, non trasforma in oggetto i classici souvenirs di un luogo, ma il suo personalericordo di quel luogo. In effetti, la fantasia delle tele, del tappeto e degli arazzi è ottenuta rielaborando con supportodigitale alcuni attimi immortalati dall’artista con la sua macchina fotografica. Gli scatti sono manipolati, moltiplicati e sistemati in modo da creare un caleidoscopio di immagini che offre un repertorio di forme e colori che, stampati su moquette o impressi su tela, permettono di realizzare i tappeti e gli arazzi.

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La foresta di Mabu è stata scoperta in Mozambico nel 2005 ed esplorata, per la prima volta, nel 2008. Gli studiosi che vi si sono recati erano alla ricerca di un luogo sulla Terra in cui sperimentare un progetto di conservazione dell’ambiente. Pur trattandosi di una terra inesplorata e vergine, crediamo che siano necessari degli occhi che la osservino, che la vigilino e delle braccia che la curino, che la proteggano. E chi lo sa, allora, cosa si nasconde a Mabu, chi abita quel grande giardino. La natura ha fatto il suo corso senza che l’uomo intervenisse alterandola in qualche misura, e continua a farlo.

È in questo senso che potremmo interpretare le opere di Noumeda Carbone, come segni, disegni e sculture dalla forma organica, naturale, ma in continua evoluzione. Le opere esposte ricreano una sorta di ecosistema protetto all’interno dello spazio espositivo, ma potrebbero avvilupparsi, sovrapporsi o svilupparsi e moltiplicarsi nell’ambiente circostante, ma anche trasformarsi e diventare altro.Nel bianco e nero della carta da parati tutto si mimetizza, si crea e scompone nello sguardo. Sembra di vedere emergere nella carta delle specie sconosciute di piante carnivore che mangiano lo spazio, che lo avvolgono come l’edera, che se ne appropriano come fanno le radici di un grande albero secolare. Come il wallpaper, così le sculture hanno una forma organica che potrebbe ricordare una pianta, un frutto o un animale, benché non abbiano niente di naturale, poiché realizzate in pillole.

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Le creazioni di Altroprogetto sperimentano la combinazione di un prodotto povero, quale è il cartone, e di un dispositivo elettrico, la lampadina. Il ritrovato colore caldo del cartone attraversato dalla luce viene a creare un’atmosfera accogliente ed intima; se si vuole, anche timida e rispettosa, in quanto la luce emanata è soffusa e modulata nel passaggio attraverso le fessure e le venature del materiale. Non si impone prepotentemente, non si tratta di una luce che vuole farsi vedere. È una luce che contribuisce, al contrario, a dare volume e vigore fisico e spaziale alla struttura, sia essa un tavolo o una lampada. Si, perché anche nel caso di una lampada, ci troviamo di fronte ad un oggetto di design e la luce prodotta non ha principalmente, o non solamente, la funzione di illuminare.

Gli oggetti qui esposti occupano lo spazio, lo riempiono con la loro rotondità, lo modellano, poggiando a terra o restando sospesi in aria. Ci circondano, ci accolgono; sono circondati e sono accoglienti. Si tratta di creazioni semplici, realizzate con un materiale povero valorizzato, però, grazie all’attenzione riposta nella scelta di rispettarne ed esaltarne la ricchezza della texture. Nel loro accostamento e con le loro cromie, disegnano linee e creano effetti che conferiscono nuova vita al materiale.

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Gente… gente che cammina, che corre, che si lascia trascinare dalla frenesia della vita, che si abbandona stanca a gesti casuali, involontari o abitudinari. Gente che pensa, che non pensa a niente, che non si accorge di stare pensando. Per la strada, siamo assaliti senza interruzione da input che ci arrivano da ogni parte: dagli altri passanti, dai cartelloni pubblicitari, dai rumori, dal traffico. Vi è una incessante dispersione di energia, piccole cose che ci affascinano e ci distraggono, a cui diamo importanza e a cui cerchiamo di trovare un senso. Tutto, però, è fugace e fragile. Le fotografie di Ezra Nahmad sanno cogliere proprio questo breve istante di profonda verità. Sono immagini, semplici e potenti al tempo stesso, di gente e di pensieri in movimento, di profili di visi e di corpi, di espressioni che appartengono un po’ a tutti noi e di cui difficilmente riusciamo ad essere consapevoli.
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I Senza titolo di Tassilo Mozer sono sculture dalle forme essenziali, primarie e semplici, ma di grande impatto e straordinaria potenza. Si inseriscono prepotentemente nello spazio, dialogando con esso e modificandone la fisionomia. Le colonne di gesso, legno e acrilici che si slanciano verso l’alto sembrano contrapporsi al legame che invece i cubi di bronzo mantengono con la terra, grazie anche al loro colore e alla loro compattezza. In realtà, la contrapposizione si attenua se si pensa che il cubo è anche un modulo primario moltiplicabile molte volte (teoricamente infinite) e che può dar vita a forme che si sviluppano in verticale. L’essenzialità è una caratteristica presente anche nei collages, pezzi di carte lavorate e poi, in parte, dipinte a china e disposte a formare figure geometriche. Evidente è il legame che i collages mantengono con la scultura; essi sono un potenziamento di un disegno sia come mezzo di espressione, sia dal punto di vista della materialità dell’opera. I collages, infatti, non si dipingono, ma si costruiscono, si modellano, la carta è lavorata, ruvida e mossa ed è una materia che prende corpo tra le mani dell’artista. I collages di Mozer, con la presenza di due soli colori, il bianco e il nero, si collocano tra la scultura e la pittura, in un punto indeterminato tra questi due mondi.

Opere essenziali, spirituali, indeterminate, dunque libere e, per definizione, “senza titolo”.

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